Per



Valore a tutto volume. 
Come ti motivo il dipendente.
Posted il 27 Marzo 2012 


Guerra dei talenti più aspra che mai, carichi di lavoro in aumento e potere d'acquisto in discesa, pressione sui risultati, incertezza sul futuro e la crisi che continua a mordere. È in questo scenario che le imprese devono convincere i dipendenti più che mai a stringere i denti, a essere efficienti e ad avere spirito d'iniziativa (la cosiddetta «proactività»). Ma come si fa di questi tempi? Secondo una indagine della Cass business school di Londra, condotto sulle multinazionali Gkn, Akzonobel e Tesco Hsc, obiettivi ambiziosi con alto investimento emotivo favoriscono l'iniziativa personale, ma non l'attaccamento all'azienda, mentre il coinvolgimento nella definizione degli obiettivi e una gestione equa delle performance aumenterebbero la fedeltà al lavoro e all'organizzazione. Mentre premi, promozioni, crescita professionale, formazione, autonomia decisionale e sistema di welfare aziendale (supporto socio-sanitario integrativo) sono positivi sia per legare le persone all'impresa sia per renderle più «performanti».

E in Italia? Che cosa fanno le aziende per coccolare le proprie risorse? Non c'è un solo modello. Sas, per esempio, al dodicesimo posto nella classifica del premio Great place to work 2011, ha studiato un modo per ottimizzare il potere di spesa dei dipendenti senza gravare sul costo del lavoro con «flexible benefit». In pratica, da settembre i dipendenti possono convertire il variabile (la retribuzione legata ai risultati personali e di gruppo) in tasse scolastiche per sé, i figli, il coniuge e i fratelli, oppure negli interessi passivi di mutui e finanziamenti, che sono esentasse secondo gli articoli 51 e 100 del Testo unico delle imposte sul reddito (Tuir). «I1 vantaggio è reciproco. Per il dipendente il lordo è uguale al netto e l'azienda risparmia sui contributi previ' denziali», spiega Elena Panzera, direttore risorse umane Sas, specializzata in business analytics. Il gruppo ha anche un sistema di welfare consolidato e di sviluppo delle competenze: «Non facciamo promesse di carriera, ma di crescita delle skill con progetti in cui le persone sono coinvolte attivamente». 

Dal 2009 anche Luxottica ha un sistema di welfare articolato, «terza gamba. della retribuzione con beni e servizi esentasse, per sostenere Ie famiglie dei 7 mila dipendenti tra operai e impiegati in Italia. Il vantaggio è chiaro: più le persone sono serene e coinvolte, meglio lavorano e meno sbagliano. Cosl la qualità aumenta, i costi extra per sprechi ed errori scendono e si liberano nuove risorse per il welfare in un circolo virtuoso. Carrello della spesa da 110 euro all'anno, libri scolastici, cassa sanitaria, asilo nido e baby siitter e, da ottobre, banca ore, permesso di paternità retribuito fino a cinque giorni lavorativi e l'innovativo job sharing familiare, che consiste nella possibilità di farsi sostituire per un periodo dal coniuge o da un figlio per trasmettere il mestiere. Inoltre, per i propri 50 anni Luxottica ha regalato azioni a rutti i dipendenti, da un minimo di 15 a un massimo di 90 a seconda dell'anzianità, rivendibili esentasse fra tre anni, con un costo per l'azienda di 7 milioni di giuro. «Sono le persone a determinare ogni giorno il vero successo di lungo periodo delle nostre imprese», ha affermato nell'occasione il presidente Leonardo Del Vecchio.

Anche il centro di ricerca e produzione Tetra Pak Packaging Solutions di Modena, al primo posto della citata classifica, ha un sistema di svelfàre che, in parte, è su misura, con scelta tra asilo nido, spese mediche, contributo studio/sport o piano pensionistico integrativo. «La personalizzazione è molto apprezzata, al di là della valutazione economica., dice Gianmaurizio Cazzarolli, direttore risorse umane Tetra Pak. Ma l'aspetto più rivoluzionario è che non si timbra più il cartellino e le ore di lavoro si aurocertificano. E alla reception è a disposizione, per chi non l'ha già in dotazione, il pc portatile con internet per riprendere il lavoro a casa, dopo aver sbrigato le faccende personali. «Da noi si è valutati sui risultati, si fa work-life balance e non si punisce tutti per qualche furbetto. Il nostro è infatti un modo diverso di lavorare, basato su libertà e fiducia reciproca, dove cambia anche il ruolo dei capi intermedi. Abbiamo insistito molto sulla loro leadership», aggiunge Cazzarolli. 

Punta molto sul ruolo dei capi anche Cisco Systems: «La motivazione è talmente personale che la differenza la fa un management che sappia prendersi cura delle persone e ne comprenda le preferenze, dalla passione per l'opera al desiderio di un master», afferma David Bevilacqua, ad Cisco Systems Italia, società di sistemi e soluzioni di rete. Il quale ogni settimana agli 11 manager che riportano a lui chiede di segnalare l'azione compiuta per rendere migliore l'azienda, con un vincitore a trimestre. Prima di Natale, invece, sono stati invitati gli altri dipendenti, senza capi, a dare idee per migliorare l'organizzazione, *** mentre I-zone è il portale dove ciascuno può portare innovazione. I progetti migliori diventano nuovi prodotti o business unir, anche premiati in denaro. 

La forza di un portale per far circolare le idee è valorizzata da tempo anche da Fedex Express, il gruppo americano di trasporti internazionali, al terzo posto tra le big del premio, quelle con oltre 850 dipendenti. «Chiediamo a tutti come vorrebbero migliorare il posto di lavoro. A tutti rispondiamo e premiamo le soluzioni piìt brillanti», racconta Renato Carrara, direttore generale Fedex Express Italia e Sud Europa. Ogni mese scrive di suo pugno una lettera agli impiegati migliori e premia in denaro i tre corrieri (su 241) più precisi nel peso e le misure dei pacchi, al di là dei chili consegnati: «Noi diffondiamo la cultura della sicurezza stradale e non della consegna il prima possibile». Inoltre, rutti i futuri capi partecipano alla giornata di orientamento «It's management for me» per capire se la vita del manager fa per loro.

Anche Amplifon, il gruppo italiano quotato alla Borsa crede nelle nuove tecnologie per favorire scambi fra pari, creare valore e coinvolgimento. I primi 50 punti vendita al mondo vincitori del premio «Charles Holland award», istituito nel 2011 su un mix di risultati, in primavera saranno premiaci dal top management a Milano, in Australia e negli Usa, ma anche raccontati su un sito dove ci sarà uno scambio di best practice. «Questo speciale riconoscimento ha un valore simbolico enorme perché premia i negozi che si distinguono per l'eccellenza del servizio, diventando un punto di riferimento per gli altri», spiega Giovanni Caruso, chief hr officer del gruppo Amplifon, presente in 19 Paesi nei cinque continenti con 10 mila collaboratori tra dipendenti, franchisee e agenti. Ma lo spirito imprenditoriale si gioca a tutti i livelli aziendali, con un sistema retriburivo sbilanciare sul variabile, il cosiddetto «pay per performance» (tra il 20% e il 4550% per i manager, che può anche raddoppiare), mentre per fidelizzare e motivare le risorse chiave nel medio-lungo periodo c'è un piano di «performance stock grant», che prevede l'assegnazione gratuita di azioni a 300 dipendenti tra manager di prima linea e direttori, riscattabili a quattro anni se ancora in azienda, con un certo livello di performance individuale e con l'azione oltre un certo valore soglia. La rete come strumento per coinvolgere le risorse e ricevere contributi dal basso è usata da un altro gruppo retail, nell'elettronica di consumo, Mediamarker. Per celebrare il ventennale, nel 2011 ha creato un social network che ha collegato i 106 punti vendita in Italia Mediaworld e Saturn, con 280 gruppi di discussione perla soluzione di problemi tecnici e pratici nella gestione del cliente e del negozio. E una char di domande e risposte con l'ad Pierluigi Bernasconi, con il dg Maurizio Motta e con la responsabile della comunicazione, Pinuccia Algeri, ha avvicinato la base ai vertici. Alta fedeltà è assicurata in Mediamarker: è paria zero il turnover degli 8 mila dipendenti sui 24-25 anni, appassionati di nuove tecnologie. «Da noi trovano aggiornamento continuo e la possibilità di crescere in fretta», spiega Ernesto Gatti, direttore risorse umane Mediamarket. 

In cinque anni da addetti vendita si può diventare direttori di negozio, con una formazione Roberto Masi, ad di McDonald's Italia in retail management con il Mip Politecnico di Milano. Sviluppa una politica decisionale e operativa condivisa tra il vertice e la base, in particolare con i franchisee della rete di negozi in Italia, il gruppo McDonald's. «Non ho mai visto un sistema così poco verricistico. ll contributo dei franchisee, che sono imprenditori ma allineaci ai valori e alle strategie della nostra organi77azione, è fondamentale. Così, oltre a essere rappresentati in diversi comitati operativi, una volta al mese si incontrano con le nostre risorse umane, per esempio per studiare insieme nuovi sistemi di engagement», racconta Roberto Masi, ad di McDonald's Italia. Grande attenzione è data anche agli store manager, i direttori di negozio che si formano per due settimane alla Hamburger University di Chicago e per cui è previsto un corporate master con l'Università di Parma. Mentre gli impiegati dei negozi, oltre allo stipendio sicuro tutti i mesi (il 90% è part-time ma a tempo indeterminato), hanno la possibilità di lavorare nei negozi McDonald's dei villaggi olimpici e di assistere alle partite dei mondiali e degli europei di calcio a prezzi speciali.  

Nell'area milanese l'assistenza sanitaria integrativa è la forma più diffusa di welfare aziendale. Ne usufruisce il 60% di un campione rappresentativo di 410 imprese con 125 mila dipendenti: il 35% per effetto della normativa nazionale del Ccnl (chimico-farmaceutico, terziario e, più di recente, alimentare lo prevedono), il 25% per decisione dell'azienda con accordo con i sindacati o i lavoratori (dall'ultimo rapporto II lavoro a Milano, realizzato da Assolombarda e Cgil, Cisl, Uil Milano). Le coperture più diffuse previste dai fondi sono quelle di diagnostica, seguite dal dentista, i grandi interventi e i ticket sanitari. Ma nei fondi nati per decisione dell'azienda e dei lavoratori si arriva a rimborsare anche lenti e occhiali, terapie, check-up e vaccinazioni fino, in certi casi, alla costosa assistenza domiciliare infermieristica e ai medicinali. Ma chi paga? Nel 40% è l'azienda a sostenere i costi della polizza, soprattutto se oltre i 250 dipendenti, mentre il 60% li condivide con gli assistiti, che arriva al 70% nelle pmi.

Gaia Fiertler su Il Mondo

Ecce OM.MO !
Posted il 20 Marzo 2012

Se ‘Caravaggio’ non ha più uno straccio di idea vuole dire che la ‘nave ha preso una brutta piega’ e che è proprio ‘ora di crescere’. Alzandosi dal dIvano !

Il 9 novembre dell’anno scorso a Roma si è avuta la Giornata Nazionale della Ricerca e dell’Innovazione che si è intitolata “E’ ora di crescere”. Una veste nuova e inedita, ha portato all’attenzione del pubblico i centri operativi dell’innovazione industriale, in ‘presa diretta’. I dieci progetti ritenuti più efficaci dal punto di vista della ricaduta sugli altri settori (aerospazio, meccatronica, energia, biotecnologie, nanotecnologie) e per la capacità di valorizzare l’asse di relazione tra il Sud e Nord di Italia e allo stesso tempo quello tra i poli della ricerca da una parte e della produzione industriale dall’altra. Hanno dato vita a altrettanti accordi di programma quadro per il loro finanziamento. Una splendida diretta video dai punti nodali dislocati lungo lo stivale. E’ il risultato di un progetto e di una mappa, il primo è il progetto Sud Nord, la seconda, la Mappa delle competenze delle imprese in Ricerca e Innovazione. Assistere alla diretta nazionale: emozionante, per me che durante il 2009 al progetto un poco ho contribuito.

Quel giorno del 2011, tre donne con responsabilità ben precise, nel progetto come nella giornata e in posizione di vertice si riuniscono per sottoscrivere una convenzione tra la Confindustria e la Rai. Di fatto per siglare un patto: valorizzare attraverso la comunicazione il ruolo anche sociale che la ricerca e l’innovazione hanno per la crescita di questo nostro Paese che è l’eccellenza nel mondo. E c’è da esserne fiere. Tre donne che per raggiungere quella posizione di leadership nella loro professione hanno dovuto sicuramente affrontare anche, la loro paura.

E’ ben chiara, in proposito Carmen Garcia Ribas quando parla di leadership femminile nel suo libro “La sindrome di Maripili. La paura delle donne di non essere amate”. Le donne quando si confrontano nella professione con ciò che le separa dal loro potere (che si traduce nell’agire e occupare il proprio spazio) devono, chi di più e chi meno, affrontare necessariamente una paura a chiare lettere e che ha un nome ben preciso. E per fare questo percorso ci vuole coraggio. Esiste un gender gap anche nella paura. Non che l’altra metà del cielo sia priva di paura, ne vive perlopiù di un tipo diverso. E’ quella di ‘non riuscire’ che prevale e che per essere affrontata richiede uguale dose di coraggio.
A ognuno il suo!

Di recente, la questione del lavoro delle donne sembra che stia raggiungendo una certa notorietà. “Fare una azione concreta significa non ostacolare il lavoro della propria compagna”, recitava lo spot radio della campagna per l’aumento di capitale di Unicredit, mi ritrovo a sorridere naif: possiamo aspettarci di non essere ostacolate soltanto dal nostro compagno?Non mi sembra quel gran traguardo per la nazione aldilà di quello che desidera rappresentare nel contenuto di una campagna. E’ già così e nei fatti, dagli albori.

Il 23 maggio del 2011 Michel Martone diceva (vedi su questo blog il post “Una generazione a perdere”) “Mentre ai giovani del ceto medio non resteranno che famiglie allungate, fatte di bisnonni che portano a scuola altrettanti nipotini unici, mentre i genitori si barcamenano da un contratto di lavoro all'altro. Ed è questo che rende urgente una nuova strategia di riforme che metta al centro dell'agenda del Paese la questione [….] della tutela del lavoro femminile”.
Oggi, dove siamo nelle scelte di Governo rispetto ai brillanti esordi? 
Meno male che di recente in occasione della biennale del Centro Studi di Confindustria “Cambia Italia” l'editoriale della rivista l'Imprenditore è uscito, titolando la copertina: Donne oggi, interventi e interviste e così facendo riposizionando la centralità del ruolo della donna imprenditrice.

Da quel 2009 a oggi, il tempo ha segnato dei check point, alcuni episodi dove apprendere, comprendere e distinguere a chiare lettere chi ha il coraggio, che dalla etimologia del termine significa ‘per cuore’, da chi soltanto sta affermando la propria paura e in quel caso possiamo fare poco se non usare per relazionarci la paura, a nostra volta. E questo aiuta certo poco tutti, a crescere. Tanto meno, le imprese che sono fatte prima di tutto, di persone.

Così, noi stiamo imparando ad affrancarci da chi usa leggero, per affermarsi nella sua professione, la paura del suo interlocutore, barattandola con la propria. Non sa che il baratto non esiste più e da un pezzo e che le strade percorribili sono la negoziazione, la transazione o la terza via che consiste nel comprendere la natura economica dell’interesse e trattarlo.



Oggi la sostenibilità è un obbligo per il business
Posted il 22 Novembre 2011

Dimenticate gli anni - benché non lontani - in cui le pratiche di sostenibilità erano, all'interno delle politiche aziendali, fattori di puro complemento rispetto ai risultati d'esercizio, o lucidi accessori da mettere in mostra per rafforzare il valore reputazionale: oggi la Csr è, quanto meno nelle grandi imprese, una "norma di fatto" e la sua rappresentazione, ossia il reporting di sostenibilità, un "obbligo per il business".


A sostenerlo, confermando un trend peraltro già evidenziato da molti altri segnali, è una ricerca condotta su scala globale dalla Kpmg. L'indagine, forte di dati aggiornati al corrente anno e di un buon track record (viene condotta fin dal 1993), si qualifica come una delle più complete sulla reportistica aziendale in materia di Csr, avendo per base le 100 maggiori società di 34 Paesi, per un totale di 3400 imprese, comprese le 250 più grandi al mondo secondo la classifica di Fortune (comunemente identificate con la sigla G250).

Dallo studio emerge un cambiamento di strategia nel reporting di sostenibilità, sempre più spesso concepito come uno strumento d'innovazione, in grado di veicolare opportunità di business e di rappresentare il valore dell'azienda sia in termini finanziari, sia nello scenario competitivo.

In generale, per le 100 società più grandi di ciascuno dei 34 Paesi considerati, la quota di imprese che fanno reporting è salita dal 53% del 2008 al 64% di quest'anno. All'avanguardia si trovano Gran Bretagna (100% le rendicontazioni 2011, ma erano già il 91% nel 2008), Giappone, Sudafrica, Francia e Danimarca, tutte oltre quota 90 per cento. In questi casi va detto che esiste una correlazione oggettiva con norme di regolamentazione promosse su scala nazionale da governi, parlamenti o authorities: in Gran Bretagna, ad esempio, il British Companies Act richiede a tutte le società quotate di fornire, all'interno del report annuale, dettagliate informazioni sulle performance sociali e ambientali, e questo evidentemente spiega l'enplein del campione indagato. La spinta dei regolatori pubblici, insomma, è decisiva. Al tempo stesso, però, il trend si consolida anche laddove le pratiche di reporting sono volontarie. E le imprese si dimostrano sempre più sensibili alla progressiva integrazione delle informazioni finanziarie con quelle sociali ed ambientali.

La tendenza prevalente, per ora, è quella di inserire una sezione separata, dedicata alle performance socio-ambientali, nel contesto del bilancio annuale, a conferma del fatto che il processo di integrazione è ancora in fase sperimentale e privilegia la forma del report "combinato". Pier Mario Barzaghi, partner Kpmg per il Climate Change e la sostenibilità, spiega che «per oltre la metà delle aziende del campione Gaso le iniziative di Csr hanno contribuito anche alla generazione di valore finanziario. In questo senso si può dire che la CorporateResponsibility sta diventando una sorta di imperativo per il business. Bisogna, però, consolidare i sistemi e i modelli di rendicontazione, per raggiungere livelli qualitativi paragonabili a quelli della rendicontazione fmanziaria».

Quanto all'Italia, naviga tra i Paesi che hanno raggiunto i livelli più elevati: il 74% delle società incluse nel campione ha rendicontato le proprie performance di sostenibilità, rispetto al 59% del 2008. Cinque anni fa erano solo 600 le imprese dell'area Ue che avevano sottoscritto il decalogo sulla responsabilità sociale promosso dall'iniziativa Global Compact delle Nazioni unite. Oggi il numero è più che triplicato, arrivando a sfiorare quota duemila. Un trend analogo, benché meno eclatante, hanno fatto registrare lo standard Emas (da 3.300 aziende certificate nel 2006 a oltre 4.600 quest'anno) e le linee-guida della Global Reporting Initiative sui bilanci di sostenibilità (le adozioni sono passate da 270 a 850 dal 2006 ad oggi).

Mentre la Business Social Compliance Initiative, progetto europeo per migliorare le condizioni di lavoro nelle catene di fornitura, nello stesso arco temporale ha visto impennare le adesioni da 70 a 700. E anche sulla base di questi risultati che la Commissione europea ha deciso un forte rilancio delle iniziative sulla responsabilità sociale d'impresa. Lo ha fatto, in particolare, con una comunicazione resa pubblica il 25 ottobre scorso e dedicata alla strategia per il triennio 2011-14. L'atto di indirizzo è imperniato su una nuova declinazione del principio della Csr, che viene definita come «responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società», con un'interpretazione più larga rispetto a quella contenuta nel «Libro verde» del 2001.

Quanto agli altri attori in scena, il ruolo delle pubbliche autorità si conferma di supporto, con un mix di volontarietà, regolamentazione complementare ove necessaria e incentivi di mercato. Sindacati e organizzazioni della società civile, secondo il documento, devono a loro volta collaborare nell'identificare le questioni chiave e le migliori soluzioni. Mentre investitori e consumatori dovrebbero premiare con le loro scelte le imprese socialmente responsabili, come di fatto già sta avvenendo in tutti i Paesi più avanzati. Il cuore della comunicazione è rappresentato da un'agenda di 30 azioni suggerite per il triennio 2011-2014.

Uno dei primi obiettivi è quello di aumentare la visibilità della Csr e far crescere le buone pratiche, anche attraverso la creazione, prevista per il 2013, di piattaforme multi- stakeholder settoriali. L'anno prossimo, inoltre, sarà lanciato un progetto per sviluppare un codice di condotta. Importante la spinta a eventuali incentivi di mercato, che dovrebbero essere resi maggiormente percepibili, così come quella volta a migliorare la trasparenza delle informazioni sociali e ambientali fornite dalle aziende in sede di rendicontazione. In generale, viene proposto un sempre più rigoroso allineamento degli approcci europei a quelli globali, con focus su principi e linee guida riconosciuti, non solo per le grandi imprese e le organizzazioni dimensionate su scala multinazionale, ma anche per le Pmi.

La verifica sui progressi compiuti viene prevista per la metà del 2014, in occasione di un meeting con imprese, Stati membri e stakeholders che dovrebbe segnare un punto fermo per la politica comunitaria di sostegno alle iniziative di responsabilità sociale.

* Elio Silva per Il Sole 24 Ore


Sostenibilità, i buchi nella rete
Posted il 25 ottobre 2011

Ridimensionata, anche per merito della crisi, la spinta alle corpose brochure cartacee, le imprese optano sempre più spesso per il web nel rendere note le pratiche di responsabilità sociale. Con esiti, però, ancora poco convincenti: la qualità delle informazioni resta largamente sotto la sufficienza e oltre un terzo delle aziende non offre alcuna rendicontazione sul proprio impatto ambientale e sociale. Così, solo per un piccolo drappello di società quotate la Csr si può considerare realmente integrata nelle strategie di comunicazione e sviluppo.

A formulare questo severogiudizio è una ricerca, la Csr Online Awards 2011, realizzata dalla società di comunicazione finanziaria Lundquist che, per il quarto anno consecutivo, ha monitorato l'utilizzo della Rete nella divulgazione della responsabilità sociale. I risultati dello studio, che Il Sole 24 Ore del lunedì è in grado di anticipare e che sono integralmente consultabili sul suo sito, saranno discussi giovedì 27 e venerdì 28 a Venezia in occasione dell'annuale seminario internazionale, con la contestuale premiazione dei vincitori.

Gli Online Awards puntano, infatti, a valorizzare le eccellenze della Csr non tanto nella sostanza, difficilmente sindacabile, trattandosi sempre di pratiche volontarie, quanto nelle modalità di comunicazione. Sotto la lente sono funti, in dettaglio, i siti istituzionali delle 5o maggiori società quotate, analizzati secondo una griglia di 79 criteri, stilati con l'ausilio di un panel di 300 esperti internazionali. La classifica 2011 vede vincitrice Telecom Italia, che ha totalizzato 82 punti su un massimo teorico di 100. Al secondo posto Fiat Spa, con 79,5 punti (ma la sezione sulla sostenibilità di Fiat Industrial, nata quest'anno dopo la scissione del gruppo, si ferma a quota 67) e in terza piazza, ex aequo, Eni ed Hera, già vincitrice della passata edizione. Lo studio evidenzia un differenziale positivo rispetto al 2010 solo per 19 delle società in classifica, 15 delle quali, tra l'altro, risultano piazzate tra le prime 20 per il terzo anno consecutivo, dato che conferma il trend di medio periodo per quanto riguarda gli investimenti in comunicazione istituzionale della sostenibilità. Il punteggio medio delle società prese in considerazione è rimasto invariato a 354 punti, ben sotto la sufficienza.


Si registra, secondo gli analisti, un generale livellamento verso il basso, dovuto alla scarsa importanza attribuita al web e alle richieste di informazioni provenienti dalle categorie degli stakeholders, che pure sono sempre più interessati ad acquisire dati di bilancio non finanziari (ambientali, sociali e di governane). Dalla ricerca emerge, tra l'altro, che il 36% delle grandi società quotate non si è ancora dotato di alcuna forma di rendicontazione online per questi fattori intangibili Secondo James Osborne, responsabile della ricerca, «i gruppi nella parte alta della classifica, abituatia essere sotto i riflettori come la maggior parte delle grandi aziende a livello internazionale, intuiscono i benefici di una rendicontazione socio-ambientale, ma perla maggior parte delle realtà il tema della Csr resta tutto da scoprire». «È una questione di credibilità - aggiunge Joakim Lundquist - perché non c'è ancora sufficiente consapevolezza dell'importanza delle informazioni non fmanziarie nella costruzione del valore delle imprese». Per quanto riguarda i contenuti,sul campione analizzato è risultato che il 52% non presenta alcuna dichiarazione di impegno da parte del management, il 58% non comunica gli obiettivi (qualitativi o quantitativi) fissati nel campo della sostenibilità e, infine, resta particolarmente debole la sezione dedicata agli indici di sostenibilità e alle presentazioni per gli investitori etici. Aumenta, così, il divario con l'Europa dove, invece, la sensibilità verso queste categorie di stakeholders sta sensibilmente aumentando.

APPROFONDIMENTO ON LINE: La graduatoria integrale www.ilsole24ore.com/ Bilanci nel mirino

Profitto sociale: le energie rinnovabili sono al servizio dello sviluppo
Posted il 23 settembre 2011

di Andrea Di Turi, Avvenire

La Fondazione di Comunità-Distretto sociale evoluto di Messina ha avviato un progetto capace di unire innovazione, lotta alla mafia, green economy e nuovo welfare comunitario Ci sono storie, vere ma così belle da sembrare favole, che più e meglio di qualsiasi teoria mostrano che si può fare": si possono tenere insieme ambiziosi obiettivi sociali e ambientali con la sostenibilità economica, puntando su collaborazione e cooperazione piuttosto che su una competizione globalizzata che spinge lavoro e dignità verso il basso. Semmai la domanda è un'altra: come mai di queste storie si parla così poco, mentre si dovrebbe studiarle, diffonderle, provare a farne modelli sistemici.

Una di queste storie riguarda la Fondazione di Comunità-Distretto sociale evoluto di Messina, costituita grazie al sostegno di Fondazione per il Sud e di numerosi altri soggetti (fra cui Aus15 di Messina, Fondazione Antiusura Pino Puglisi, Confindustria Messina, Caritas Italiana e Banca Etica). Ha avviato un progetto capace di unire innovazione, lotta alla mafia, green economy, nuovo welfare comunitario e opportunità di reinserimento sociale: scusate se è poco. Il progetto, che ha previsto un investimento di circa 15 milioni di euro, ha riguardato la realizzazione di un vasto parco per la produzione di energia rinnovabile. In parte dimostrativo delle molteplici forme possibili di energia rinnovabile (sole, vento, mare), in parte effettivamente produttivo grazie all'utilizzo del fotovoltaico: un parco diffuso che comprende alcuni grandi impianti costruiti su fondi confiscati alla criminalità organizzata,160 piccoli impianti da realizzarsi su edifici privati e un'ottantina di altri su edifici pubblici (ospedali, parrocchie, scuole, comuni), il primo dei quali è stato inaugurato a marzo sull'edificio del Prap di Palermo (Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria per la Sicilia).

L'intero progetto, le cui ricadute positive sul territorio sono già assai rilevanti (creazione di posti di lavoro, energia prodotta che sarà utilizzata dalle istituzioni e dalle centinaia di famiglie che hanno aderito all'iniziativa, realizzazione di ombrari agricoli per coltivazioni biologiche, terreni che ospiteranno iniziative educative su temi quali legalità e sviluppo sostenibile), ha un obiettivo preciso e dichiarato, che si colloca a sua volta all'interno del progetto "Luce e libertà" sostenuto dalla Cassa delle Ammende del ministero di Giustizia: la Fondazione utilizzerà gli introiti generati dal parco per finanziare un'attività di recupero e inclusione sociale attraverso il reinserimento lavorativo, nonché di cura nel lungo periodo, di 56 persone internate presso l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Per ciascuna di esse sono previsti piani personalizzati di inserimento sociale, o presso le famiglie d'origine, o in appartamenti resi disponibili ad esempio dalle Caritas diocesane. Il progetto costituisce una delle buone pratiche individuate da S.c.o.r.e. ("Stop crimes on renewables and environment", fermare la criminalità organizzata nel settore delle energie rinnovabili e ambiente), l'iniziativa della Fondazione culturale Responsabilità etica per la promozione della legalità nel settore delle rinnovabili. E il passo da buona pratica a paradigma potrebbe non essere tanto lungo.



segue dalla prima pagina...

Generazione a perdere ?
Posted 23 maggio 2011


di Francesca Barbieri


A garantire una minima vivacità demografica è ormai il solo contributo degli immigrati. In un Paese che cresce a passo di lumaca da decenni, con forti ostacoli agli investimenti e un modello di concorrenza arretrato, il "deserto dei giovani" rappresenta l'ennesima tegola. Con quali effetti su economia, consumi e mercato del lavoro? «Sicuramente il fatto che stiano andando in pensione i baby boomers - spiega Maria Luisa Bianco, ordinario di sociologia all'Università del Piemonte Orientale - e che entrino nel mercato i loro pochissimi figli potrebbe essere di per sé una parziale soluzione agli squilibri attuali». Ma sarebbe troppo semplicistico considerare solo i numeri assoluti. «In percentuale - sottolinea Mario Mezzanzanica, docente alla facoltà di scienze statistiche alla Bicocca - la quota di disoccupazione giovanile non è destinata a scendere: per i giovani ci sono sempre più barriere all'entrata, soprattutto per i neo-laureati che incontrano poche prospettive di carriera nel nostro tessuto produttivo fatto di Pini e si trovano penalizzati dal non avere quell'esperienza più che mai necessaria ora per le imprese ancora impegnate a fronteggiare gli effetti negativi della crisi economica». Rimane comunque da spiegare perché i giovani italiani a bassa scolarità rimangono disoccupati, mentre nel contempo c'è bisogno di lavoratori stranieri. «La risposta - spiega Bianco - si trova nel fatto che non accettano l'unica strada per loro percorribile per trovare occupazione, mettersi in concorrenza con gli stranieri per posti di lavoro spesso in nero, con retribuzioni inadeguate per una vita dignitosa». Per la sociologa «il rischio è che al mercato del lavoro italiano manchino risorse qualificate» con ripercussioni evidenti sul livello di competitività del sistema Paese. E se gli esperti sono concordi nell'affermare che il venir meno di milioni di giovani italiani non dovrebbe mettere a rischio il sistema pensionistico, anche per il contributo degli immigrati regolari, la compressione delle nuove generazioni avrà invece effetti sui consumi. «Negli anni 60 - ricorda Enrico Finzi, sociologo e presidente di Astra Ricerche - i giovani guidavano le danze, erano al tempo stesso bomba e innesco dei consumi: oggi hanno un ruolo molto marginale, sono target di riferimento in pochi segmenti dell'abbigliamento, dei videogiochi, di alcuni generi musicali». Secondo il sociologo, gli acquisti degli under 35 sono sempre di più «short range, orientati a piaceri intensi ma brevi e spesso low cost». E così cala la quota di trentenni acquirenti di auto: dal 2008 al 2010 sono passati dal 27% al 24% secondo Unrae, l'Associazione che rappresenta le case estere operanti sul mercato italiano. Sono in calo anche le vendite di moto a bassa cilindrata: gli scooter hanno perso quasi 20mila pezzi nel primo quadrimestre di quest'anno (-24% secondo l'Ancma, associazione nazionale ciclo e motociclo), mentre non si modifica il trend delle maxi cilindrate ( 74%), con un target di riferimento più maturo. «L'abbigliamento di marca, la musica registrata, la cosmetica - sottolinea Finzi - hanno sempre meno acquirenti giovani: ci sono settori che scompaiono e altri che si trasferiscono sul web per sopravvivere». Un esempio? La vendita di cd e dvd musicali è in caduta (-3%), mentre crescono i download digitali ( 10%). «I costi più bassi - commenta Finzi - esercitano un evidente appeal sui giovani». Sempre meno anche le case di proprietà dei giovani. «I single e le giovani coppie - dichiara Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari - rappresentavano fmo a qualche anno fa oltre un quarto del mercato, oggi la quota sta rapidamente scendendo verso il 20 per cento». Un fenomeno che si può già leggere nelle statistiche sui mutui: dal 2002 a oggi, secondo Mutuionline, la percentuale di finanziamenti erogati agli under 35 è scesa dal 50 al 36 per cento. «Sono sempre più i genitori - conclude Breglia - a comprare casa per i figli, anche perché nel nostro Paese sono esauriti gli incentivi: le nuove generazioni senza mamma e papà alle spalle devono spesso rinunciare alla casa o accontentarsi di abitazioni sempre più modeste». Il futuro non è più quello di una volta, direbbe - guardando ai giovani italiani - il poeta francese Paul Valéry.



di Michel Martone

Non so se qualcuno ci ha fatto caso, ma una delle più gravi conseguenze dell'egoismo generazionale diffuso nel nostro Paese è che le famiglie stanno diventando più lunghe che larghe. Mi spiego meglio. Un tempo le famiglie erano orizzontali, nel senso che ciascuno aveva tanti fratelli e cugini e magari pochi nonni e quasi nessun bisnonno. Oggi invece si sviluppano in verticale: pochi fratelli e pochi cugini, ma diversi nonni e magari qualche bisnonno. Ciò è dovuto ad alcuni fattori indubbiamente positivi, come il progresso della ricerca medica o il miglioramento dell'alimentazione, che hanno dilatato l'aspettativa di vita di nonni e bisnonni. Ma è anche un inquietante segno di alcune tendenze che avranno importanti ripercussioni sui nostri stili di vita. Innanzitutto, il drammatico crollo del tasso di natalità. Basta prendere i dati Eurostat del 2009 per rendersi conto che nel nostro Paese, con un tasso di natalità del 9,2 per mille, il numero di nuovi nati è inferiore al numero dei deceduti. Mentre anche in altri Paesi europei, che pure hanno problemi simili ai nostri, i tassi di natalità sono ben più alti: Inghilterra 12,7, Spagna 12,3, Francia 12,9, Danimarca 11,3, Svezia 12,2. Ciò significa che in Italia ogni donna ha in media 1,41 bambini contro l'1,89 della Danimarca, il 2,02 della Francia, l'1,91 della Svezia e l'1,94 dell'Inghilterra. Il che significa che rischiamo di diventare un popolo di figli unici. Alcuni dicono che ciò dipende dal fatto che in Italia mancano le strutture di assistenza, come gli asili nido, e che le donne che lavorano non procreano perché non sanno dove lasciare i figli. Tutto vero. Ma questa spiegazione non basta. La causa di questo allungamento della catena familiare deve essere ricercata anche in fattori di carattere culturale. Primo fra tutti, l'egoismo generazionale di cui si è ammalata la nostra società e che ha prodotto il terzo debito pubblico del mondo. Ovvero quella tendenza, ormai calcificata persino nelle leggi, di ogni generazione a vivere solo nel breve termine, consumando quanta più ricchezza possibile senza prendersi cura di chi viene dopo. Perché, come dimostrano tutte le statistiche, la triste verità è purtroppo questa. Al giorno d'oggi, a causa dei debiti contratti da chi ci ha preceduto, procreare è diventato un lusso, soprattutto in un sistema di welfare come quello italiano. Con ogni figlio aumentano le difficoltà e peggiora la qualità di vita, perché non c'è alcun "quoziente familiare", anzi le tasse sono troppo alte, i contratti troppo precari, mancano gli asili nido ed è difficile tirare avanti senza l'aiuto dei genitori. Soprattutto per le donne giovani e meridionali che nessuno vuole assumere perché sono in età di maternità. Altrimenti, se le cose continueranno così, le famiglie allargate diventeranno prerogativa dei ricchissimi, che posso- no permettersele, o dei poverissimi, che non hanno altro, come suggerisce l'origine stessa del termine proletariato. Mentre ai giovani del ceto medio non resteranno che famiglie allungate, fatte di bisnonni che portano a scuola altrettanti nipotini unici, mentre i genitori si barcamenano da un contratto di lavoro all'altro. Ed è questo che rende urgente una nuova strategia di riforme che metta al centro dell'agenda del Paese la questione dell'occupazione giovanile e, con essa, quella della tutela del lavoro femminile. Si potrebbe cominciare da una riforma fiscale che, per risanare il terzo debito pubblico del mondo, cominci a premiare i giovani che, pur lavorando, fanno figli a scapito di quanti vivono di rendita Perché, come dimostrano tutte le statistiche, il tasso di crescita economica di un Paese si comincia a misurare dagli schiamazzi dei suoi bambini.



di Luigi Ceccarini

Secondo gli italiani i giovani avranno una posizione sociale ed economica peggiore di quella delle precedenti generazioni. Lo pensano sei intervistati su dieci: in crescita di qualche punto percentuale rispetto ad un anno fa. Non è una novità. E' una tendenza che continua a crescere. Mentre è in calo la fiducia verso le opportunità di lavoro. Cosi ai giovani non resta che fuggire. Oltre la metà degli italiani infatti ritiene che oggi l'unica speranza peri giovani che vogliano fare carriera sia andare all'estero. Una sorta di exit strategy. Un viaggio della speranza, che tradisce un clima difficile e di grande inquietudine nel rapporto tra giovani e mondo del lavoro. Questo è uno degli aspetti che emerge dalla XXlX rilevazione Demos-Coop per l'Osservatorio sul Capitale Sociale degli italiani. II 56% degli intervistati condivide l'idea che per i giovani il lavoro, la carriera e il futuro si trovino in primo luogo fuori Italia. Si tratta di un atteggiamento esteso, in modo particolare tra i diretti interessati. Sono soprattutto i più giovani - e in larga parte gli studenti - a pensarla così. Coloro che hanno meno di 25 anni: nel 76% dei casi. Ma tocca anche il 66% di quanti hanno un'età compresa tra 25 e 34 anni. Rispettivamente 20 e 10 punti percentuali in più della media generale. Gli stessi liberi professionisti, in tre casi su quattro, pensano alla scelta dell'estero come sbocco perla camera dei giovani. Questo orientamento in parte è probabilmente dovuto ad un approccio cosmopolita, condiviso nella generazione giovanile, a loro agio in un mondo ormai globalizzato. Ma in larga misura è una ipotesi riconducibile ad un diffuso e generalizzato sentimento di incertezza verso il futuro che si respira Anche chi lavora in proprio, in tre casi su quattro, guarda oltre frontiera in Italia. In particolare verso le scarse opportunità offerte dal mercato del lavoro e dall'andamento dell'economia nazionale. Si tratta, quindi, di un ragionamento razionale dettato da concrete valutazioni sulle - difficili - prospettive future, con cui i giovani (e le famiglie) debbono fare i conti. E' dunque una preoccupazione che tocca tutti, anche gli adulti. Ed è tra gli insoddisfatti nei confronti dell'economia e delle opportunità di lavoro che l'idea di cercare all'estero nuove possibilità trova maggiore credito. Tra gli insoddisfatti, il 61% ritiene che lasciare l'Italia sia l'unica speranza per giovani che vogliano fare camera, circa 20 punti percentuali in più rispetto a quanti si dicono invece soddisfatti dell'economia e delle possibilità di lavoro in Italia. Inoltre, tra coloro che vedono il proprio futuro o quello familiare segnato da incertezza, nel 65% dei casi l'estero viene visto con speranza, contro il 47% di chi vive in modo più disteso. Per i giovani italiani, dunque, l'ipotesi della fuga sembra essere un modo, concreto, per immaginarsi il futuro.

segue dalla prima pagina .......

La bussola di a l i p e r
Posted 23 maggio 2011

I primi dati provenienti dall’osservatorio di Sodalitas ci dicono che l’età delle persone impiegate nel non profit è concentrata tra i 30 e i 45 anni e che sono profili ad alta scolarità in prevalenza donne e con le retribuzioni migliori soltanto quando presenti tra le Associazioni e le Fondazioni. Anche Hay Group si cimenta su qualche ragionamento in tal senso in particolare sul profilo retributivo e anche rispetto alla figura del fundraiser che di recente ha visto la sua principale manifestazione nazionale a Castrocaro Terme nell’ambito del Festival del Fundraising  organizzato da Philanthropy . Questa categoria è rappresentata ad oggi soltanto da Assif.

E pure Elan International  ci comunica i risultati del della sua ricerca condotta su un panel di 300 professionisti responsabili aziendali per la gestione della responsabilità sociale di impresa (CSR). In Italia la provenienza della figura dal settore non profit è scarso, il 50 % proviene da marketing e un 35 % dalla comunicazione e solo il restante 15% da precedenti incarichi di CSR. Un dato ben diverso dalle multinazionali e dalle società estere dove invece circa il 50% proviene da funzioni analoghe mentre è soltanto il 20% a provenire dalla comunicazione.






La fine dell’intimità nell’era di Facebook
di Zygmunt Bauman
Posted 18 aprile 2011

Facebook ha distaccato di molto ogni altra novità e moda passeggera legata a Internet, e ha battuto tutti i record di crescita del numero degli utenti regolari. Altrettanto dicasi per il suo valore commerciale, che secondo Le Monde del 24 febbraio scorso ha ormai raggiunto la cifra inaudita di 50 miliardi di dollari. Mentre scrivo, il numero degli "utenti attivi" di Facebook ha doppiato la boa del mezzo miliardo: alcuni di essi, naturalmente, sono più attivi di altri, ma ogni giorno va su Facebook almeno la metà di tutti i suoi utenti attivi. La proprietà informa che l'utente medio di Facebook ha 130 amici (amici su Facebook), e gli utenti vi trascorrono complessivamente più di 700 miliardi di minuti al mese. Se questa cifra astronomica è troppo grande da digerire e assimilare, sarà bene far notare che, se divisa in parti uguali fra tutti gli utenti attivi di Facebook, corrisponderebbe a circa 48 minuti al giorno per ciascuno. In alternativa, potrebbe corrispondere a un totale di 16 milioni di persone che trascorrono su Facebook 7 giorni a settimana, 24 ore al giorno. Si tratta di un successo davvero sbalorditivo secondo ogni parametro. Quando ha ideato Facebook (ma c'è chi dice abbia rubato l'idea), e l'ha poi lanciato su Internet nel febbraio del 2004 ad uso esclusivo degli studenti di Harvard, l'allora ventenne Mark Zuckerberg dev'essersi imbattuto in una specie di miniera d'oro: questo è piuttosto evidente. Ma che cosa era quel minerale simile all'oro che il fortunato Mark ha scoperto e continua a estrarre con profitti favolosi che non cessano di accrescersi?(...)
Ciò che si è acquistato è una rete, non una "comunità". E le due cose, come si scoprirà prima o poi (a condizione, naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare, che cosa sia la "comunità", occupati come si è a crearsi reti per poi disfarle), si rassomigliano quanto il gesso e il formaggio. Appartenere a una comunità costituisce una condizione molto più sicura e affidabile, benché indubbiamente più limitante e più vincolante, che avere una rete. La comunità è qualcosa che ci osserva da presso e ci lascia poco margine di manovra: può metterci al bando e mandarci in esilio, ma non ammette dimissioni volontarie. Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla nostra ottemperanza alle sue norme (sempre che una rete abbia norme alle quali ottemperare, il che assai spesso non è), e quindi ci lascia molto più agio e soprattutto non ci penalizza se ne usciamo. Però sulla comunità si può contare come su un amico vero, quello che "si riconosce nel momento del bisogno". (...)

Ebbene: quei nomi e quelle foto che gli utenti di Facebook chiamano "amici" ci sono vicini o lontani? Ultimamente, un entusiasta "utente attivo" di Facebook si vantava di riuscire a farsi 500 nuovi amici al giorno, più di quanti ne abbia acquistati io nei miei 85 anni di vita. Ma come osserva Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, "la nostra mente non è stata predisposta (dall'evoluzione) a consentirci di avere, nel nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di persone". Questo numero Dunbar l'ha addirittura calcolato, scoprendo che "un essere umano non riesce a tenere in piedi più di circa 150 rapporti significativi". (...)Le "reti di amicizie" supportate elettronicamente promettevano di spezzare le recalcitranti limitazioni alla socievolezza fissate dal nostro patrimonio genetico. Ebbene, dice Dunbar, non le hanno spezzate e non le spezzeranno: la promessa può soltanto essere disattesa. «È vero», ha scritto lo studioso lo scorso 25 dicembre nella sua rubrica sul New York Times, «con la propria pagina di Facebook si può fare amicizia con 500, 1000, persino 5000 persone. Ma tutte, eccetto quel nucleo di 150, non sono che semplici voyeur che mettono il naso nella tua vita quotidiana». Tra quei mille amici su Facebook, i "rapporti significativi" – mantenuti per mezzo di un servizio elettronico oppure vissuti off-line – sono calmierati, come prima, dai limiti invalicabili del "numero di Dunbar". Il vero servizio reso da Facebook e da altri siti "sociali" simili è dunque il mantenimento del nucleo di amici nelle condizioni del mondo attuale, un mondo ad elevata mobilità, che si muove in fretta e cambia rapidamente... (...)Dunbar ha ragione quando sostiene che i succedanei elettronici del rapporto faccia a faccia hanno aggiornato il retaggio dell'età della pietra, cioè hanno adattato i modi e i mezzi dei rapporti umani ai requisiti della nostra nouvel âge. Mi sembra però che trascuri un fatto, e cioè che nel corso di tale adattamento, quei modi e quei mezzi sono stati anche modificati in notevole misura, e di conseguenza anche i "rapporti significativi" hanno cambiato significato. Altrettanto deve aver fatto il contenuto del concetto di "numero di Dunbar". A meno che tale contenuto non si esaurisca precisamente e unicamente nel numero. Il punto è che, indipendentemente dal fatto che il numero di persone con cui si può stabilire un "rapporto significativo" non sia variato nel corso dei millenni, il contenuto richiesto per rendere "significativi" i rapporti umani dev'essere cambiato in notevole misura, e in modo particolarmente drastico in questi ultimi trenta-quarant'anni… Esso si è modificato al punto che, come ipotizza lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, i rapporti considerati "significativi" sono passati dall'intimité all'extimité, cioè dall'intimità a ciò che egli chiama "estimità". (...)

L'avvento della società-confessionale ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione squisitamente moderna che è la privacy
– ma ha anche segnato l'inizio delle sue vertiginose cadute dalla vetta della sua gloria. Trionfo che si è rivelato una vittoria di Pirro, naturalmente, visto che la privacy ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma al prezzo di perdere il suo diritto alla segretezza, suo tratto distintivo e privilegio più caro e più gelosamente difeso. Analogamente ad altre categorie di beni personali, infatti, la segretezza è per definizione quella parte di conoscenza la cui condivisione con altri è rifiutata o proibita e/o strettamente controllata. La segretezza, per così dire, traccia e contrassegna i confini della privacy, essendo quest'ultima la sfera destinata ad essere propria, il territorio della propria sovranità indivisa, entro il quale si ha il potere totale e indivisibile di decidere "che cosa sono e chi sono", e a partire dalla quale si possono lanciare e rilanciare le campagne per far riconoscere e rispettare le proprie decisioni e mantenerle tali.

In una sorprendente inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri antenati, però, abbiamo perso il fegato, l'energia e soprattutto la volontà di persistere nella difesa di quei diritti, di quegli insostituibili elementi costitutivi dell'autonomia individuale. Quel che ci spaventa al giorno d'oggi non è tanto la possibilità del tradimento o della violazione della privacy, quanto il suo opposto, cioè la prospettiva che tutte le vie d'uscita possano venire bloccate. L'area della privacy si trasforma così in un luogo di carcerazione, e il proprietario dello spazio privato è condannato a cuocere nel suo brodo, costretto in una condizione contrassegnata dall'assenza di avidi ascoltatori bramosi di estrarre e strappare i nostri segreti dai bastioni della privacy, di gettarli in pasto al pubblico, di farne una proprietà condivisa da tutti e che tutti desiderano condividere. A quanto sembra non proviamo più gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti in grado di esaltare il nostro ego attirando l'attenzione dei ricercatori e degli autori dei talk-show televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle copertine delle riviste su carta patinata. (...).

In Gran Bretagna, paese arretrato di cyber-anni rispetto all'Estremo Oriente in termini di diffusione e utilizzo di apparecchiature elettroniche di avanguardia, gli utenti forse si affidano ancora al social networking per manifestare la loro libertà di scelta e addirittura lo ritengono uno strumento di ribellione e auto-affermazione giovanile. Ma in Corea del Sud, per esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già abitualmente mediata da apparecchiature elettroniche (o, piuttosto, dove la vita sociale è già stata trasformata in vita elettronica o cyber-vita, e dove la "vita sociale" per buona parte si trascorre principalmente in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa), ai giovani è del tutto evidente che non hanno neanche un briciolo di scelta: là dove vivono, vivere la vita sociale per via elettronica non è più una scelta ma una necessità, un "prendere o lasciare". La "morte sociale" attende quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del mercato sudcoreano in fatto di cultura show-and-tell. (...)

I teenager equipaggiati di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti in formazione e formati all'arte di vivere in una società-confessionale, una società notoria per aver cancellato il confine che un tempo separava pubblico e privato, per aver fatto dell'esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a coloro che si rifiutano di farle. (...) Essere membri della società dei consumatori è un arduo compito, un percorso in salita che non finisce mai. Il timore di non riuscire a conformarsi è stato soppiantato dal timore dell'inadeguatezza, ma non per questo si è fatto meno tormentoso. I mercati dei consumatori sono bramosi di capitalizzare questo timore, e le industrie che sfornano beni di consumo si contendono lo status di guide/aiutanti più affidabili per i loro clienti, sottoposti allo sforzo incessante di essere all'altezza del compito.

Sono i mercati a fornire gli "attrezzi", cioè gli strumenti indispensabili per "auto-fabbricarsi": un lavoro che ciascuno esegue da sé. E in realtà, le merci che i mercati rappresentano come "attrezzi" destinati a essere usati dai singoli per prendere decisioni non sono che decisioni già prese. Quelle merci sono state approntate ben prima che il singolo si trovasse dinanzi al dovere (rappresentato come opportunità) di decidere. È quindi assurdo pensare che quegli strumenti rendano possibile una scelta individuale delle finalità. Al contrario, essi non sono che cristallizzazioni di un'irresistibile "necessità" che gli esseri umani, oggi come un tempo, sono tenuti a imparare, cui devono obbedire, e cui devono imparare a obbedire per essere liberi… Ma allora, lo strabiliante successo di Facebook non sarà dovuto al fatto di aver creato il mercato su cui, ogni giorno, necessità e libertà di scelta s'incontrano?





L’economia del noi. L'Italia che condivide.
di Roberta Carlini
Posted 18 aprile 2011



La grande recessione ha portato via con sé parecchie certezze. Oltre a milioni di posti di lavoro, case, mutui, pensioni, sanità, scuole e università; oltre a molte imprese e qualche banca; oltre a molte vite umane; oltre al mito della stabilità e della crescita come elementi naturali del sistema; oltre al castello di carte dell’economia finanziaria e a un bel pezzo dell’economia reale, la grande crisi ha fatto cascare anche una certa concezione dell’economia. Ossia, quel corpus di idee e teorie prevalenti che hanno dominato sulla scena politica, culturale e accademica negli ultimi trent’anni.

I segnali di questa crisi sono parecchi. Ha cominciato subito la regina Elisabetta, con la sua celebre domanda naif agli attoniti economisti della London School of Economics circa la mancata previsione del crollo (“come mai non se n’era accorto nessuno?”). Ha proseguito l’Accademia di Stoccolma, che dopo il disastro ha fatto uscire per un po’ il Nobel per l’economia fuori dai ristretti confini della teoria mainstream in cui era rimasto, salvo rare eccezioni, per anni e anni; portandolo addirittura dagli algoritmi super-specialistici del mercato al campo interdisciplinare dei “commons”, premiando Eleanor Ostrom e le sue ricerche sulla gestione collettiva dei beni comuni, e così riportando l’economia con i piedi per terra, dentro la società. Se ne sono accorti la comunità scientifica e i media, con una produzione ricchissima di libri e articoli con critiche, autocritiche, processi alla ‘scienza triste’. Nei convegni degli economisti è comparsa la parola “felicità” e il relativo filone di studi ha trovato nuova linfa.

Intanto si è andata allargando al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori la critica alla crescita del Pil come sola misura del benessere delle nazioni: una critica di lungo periodo che ha permeato studi e movimenti, ma che è stata sussunta a livello istituzionale in Francia con la Commissione Sen-Fitoussi-Stiglitz, è entrata anche nei programmi scientifici di istituti di statistica nazionali tra i quali il nostro Istat, ed è diventato argomento ricorrente e persino di moda nella pubblicistica economica. Anche in questo caso è in gioco l’allargamento dei confini dell’economico, e l’ingresso di indicatori di qualità sociale al fianco dei tradizionali indici relativi alla sfera dell’economia intesa in un senso assai ristretto.

Sulla stessa interpretazione della crisi, si sono fronteggiate una versione minimalista, che ha chiamato in causa disfunzioni della finanza e disattenzioni del regolatore, e altre più attente a fattori strutturali globali; queste ultime indagano sul ruolo che la crescita delle diseguaglianze sociali nelle società occidentali ha avuto nell’innescare la crisi del debito, e dunque sottolineano l’importanza dei fattori distributivi, sociali e istituzionali sui fatti dell’economia: riequilibrando così i pesi tra mercato, società e politica, per un lungo periodo decisamente squilibrati a favore del primo.

Si tratta di segnali per un po’ di tempo molto evidenti anche nella percezione pubblica e poi rapidamente dimenticati dopo che la crisi finanziaria è rientrata – grazie al pronto soccorso dei governi – mentre è esplosa in tutta la sua distruttività quella economica – contro la quale l’intervento della politica è stato meno rapido se non assente. Segnali di diversa natura, tutti però concordanti nel mettere in discussione l’assunto che ha nutrito per trent’anni il senso comune dell’economia: quello per cui è l’interesse individuale l’unico motore e l’unica chiave interpretativa dei comportamenti umani nella sfera della produzione e dello scambio. In quest’ottica, il mercato da luogo istituzionale dove si scambiano beni, servizi e denaro diventa centro di gravitazione universale, e l’individuo – l’io isolato al centro della scena economica – il protagonista di un modello che, con teorie e tecniche via via più raffinate, ha sempre continuato a battere sullo stesso chiodo: lasciate fare gli interessi individuali, e la loro interazione ci darà il massimo raggiungibile per tutti.

Una concezione del mondo che pareva fallita e incartocciata negli scatoloni dei broker di Lehman Brothers, e che è stata momentaneamente accantonata proprio dai suoi più accaniti fautori, quando sotto le strette della crisi hanno chiesto e ottenuto un salvataggio pubblico per rimediare ai guasti privati. Salvo poi tornare sani e salvi al “business as usual”, rifiutando innovazioni radicali sulle regole finanziarie e sullo stesso sistema economico. Gli interessi costituiti, o meglio ricostituiti, si sono ripresi la scena, ma non è una gran scena in un mondo occidentale alle prese con disoccupazione, povertà, instabilità, rischi ecologici crescenti e crescenti paure; mentre la politica, alla quale era stato ridato un piccolo scettro nell’emergenza della crisi finanziaria, l’ha subito perso, non sapendo bene come usarlo o non riuscendo a farlo per sproporzione di forze.

È in questo quadro – di macerie ma anche di una transizione potenzialmente fertile – che emergono sempre più nella società comportamenti che sostituiscono il “noi” all’”io”, la condivisione alla divisione, la cooperazione alla frammentazione. Definiamo l’economia del noi come un insieme di esperienze fondate sui legami sociali, nelle quali gruppi di persone entrano in relazione e cercano soluzioni comunitarie a problemi economici, ispirate a principi di reciprocità, solidarietà, socialità, valori ideali, etici o religiosi. Fuori dalla logica esclusiva dell’homo economicus, spesso contro di essa, ma dentro il mercato. Fuori dalla scena politica istituzionale, ma spesso con l’ambizione di portare una propria visione politica nel fare quotidiano. Fuori dall’universo chiuso dei beni proprietari, nello spazio aperto dei beni comuni.

Di esperienze del “noi” la storia del capitalismo è costellata sin dalle origini. Dalle società di mutuo soccorso in poi, è lunga la lista di esempi di quella che Polanyi definiva “l’autodifesa della società” dal mercato, e che gli anti-utilitaristi del Mauss chiamano la “persistenza del dono nelle società moderne”. Lunga, diversificata, e con ondate cicliche. Ha preceduto e accompagnato l’ascesa dell’azione collettiva organizzata nei sindacati e nei partiti di massa, gettando le basi di istituti che sarebbero poi diventati pilastri del welfare state; e ha accompagnato la crisi dello stato sociale, svolgendo un ruolo di integrazione o di sostituzione rispetto ai suoi servizi. Ha prosperato, con le cooperative bianche e rosse del dopoguerra, in epoca di politica “forte”, sorretta da robusti schemi di cambiamento del sistema economico e sociale; ed è ritornata, con gruppi che praticavano modelli alternativi di consumo, di risparmio, di bilanci, in epoca di politica debole, debolissima, a contrapporre alla povertà di vedute di quest’ultima le sue “utopie del ben fare” (per citare il bel titolo di un libro di Giulio Marcon, excursus esaustivo e critico nella storia delle organizzazioni della società civile in Italia). È cresciuta, nel mondo occidentale e anche in Italia, negli stessi decenni in cui a livello politico mondiale le istanze dell’economia “giusta” venivano mandate in soffitta o delegate al mondo della religione o della filantropia.

Adesso, l’economia del noi gode di due fattori congiunturali favorevoli. Il primo è in negativo, ed è nel declino delle fortune teoriche dell’individualismo economico, nella consapevolezza diffusa dell’esaurimento di un modello che ha provocato guasti sociali e sta portando al collasso ambientale, nell’urgenza di un’innovazione di sistema. Il secondo è in positivo, ed è nell’economia della conoscenza: il cambiamento del paradigma tecnologico seguìto alla rivoluzione della rete, che non solo dà ai gruppi (oltre che ai singoli) un formidabile strumento di comunicazione, organizzazione e azione, facilitando la messa in pratica di molti progetti di innovazione sociale; ma che è essa stessa, strutturalmente, un’economia di comunità, fondata sulle relazioni, dove la cooperazione vince perché è più efficace e non solo perché è più buona, e nel quale sono la collaborazione e il dono a produrre valore.

Dai gruppi d’acquisto di quartiere alle nuove comunità del free software, dai gruppi di abitazione o di autocostruzione al coworking, dalle banche del tempo all’economia di comunione, dalle cooperative sociali alla finanza etica: le pratiche dell’economia del noi sono molte, assai diverse tra loro, e diverse sono le motivazioni di chi vi partecipa. Le stesse realtà organizzative possono assumere connotazioni diverse a seconda del contesto in cui agiscono, o del momento storico. Ad esempio, i gruppi d’acquisto solidali, nati sull’esigenza di coniugare consumo ed etica, sono cresciuti esponenzialmente sull’onda delle crisi alimentari e relativi effetti di panico; sono diventati uno strumento molto potente nella riconversione ecologica dell’economia; e hanno modellato i propri caratteri sulle priorità del territorio nel quale operano in organizzazioni che si stanno sempre più strutturando. In Sicilia, dove sono sbarcati non da molto, e più in generale nel Mezzogiorno, stanno sempre più assumendo l’obiettivo della lotta alla mafia come prioritario, e fanno questa lotta con lo strumento principale del consumo critico: il portafoglio. Mentre a Nord, dove sono nati e in massa cresciuti, gli stessi gruppi si sono trovati ultimamente anche a guidare o aiutare il salvataggio di aziende in crisi. E ovunque, la rete dei gruppi d’acquisto ha messo a fuoco i costi e i guasti della filiera lunga della catena che va dai campi al piatto, salvando letteralmente dalla crisi molti piccoli produttori strozzati dalla grande distribuzione. Nel far questo, ha incrociato un movimento d’opinione vasto e crescente e trovando punti di contatto inaspettati con le organizzazioni collettive degli agricoltori. Come la Coldiretti, l’antico granaio democristiano degli anni ’50, ormai conquistata alle parole d’ordine del chilometro zero e protagonista di iniziative comuni con le reti locali dei gruppi d’acquisto e Slow food.

Nel muoversi su istanze non economiche, queste realtà si sono trovate a confrontarsi con alcuni problemi strutturali (e colossali) dell’economia italiana: il peso dell’intermediazione, l’agonia del settore agricolo, i cartelli dei grandi operatori organizzati, l’illegalità e il lavoro nero. La “filiera corta”, oltre che modello sano ed ecologico nel campo agricolo e dell’alimentazione, è diventato bandiera di un più generale movimento di avvicinamento tra chi lavora e chi consuma, chi risparmia e chi presta, valorizzando al massimo il capitale umano delle relazioni tra questi soggetti e allo stesso tempo tagliando tutta la erbaccia parassitaria cresciuta negli spazi di un mercato ben diverso da quella macchina bel funzionante descritta nei libri di testo di economia. Allo stesso tempo, la diffusione di altri stili di vita comunitari – come i gruppi di abitazione, o il coworking – mescola motivazioni economiche e una sensibilità ambientale che in alcune zone del paese e in alcune fasce di popolazione è ormai consolidata. Mentre la collaborazione di massa nel web sfida i modelli produttivi pre-esistenti – soprattutto nel campo dell’economia della conoscenza, ma non solo – e dà alle economie di comunità strumenti potenti per costruire proprie “filiere corte”, facilmente connesse in rete. Strumenti non ancora sufficientemente esplorati dalla società civile, in realtà, soprattutto in una società come la nostra nella quale il divario digitale è sensibile; ma il cui sviluppo è solo agli inizi, e può prendere direzioni diverse anche in relazione alle scelte che si faranno sulla politica della rete.

Anche le motivazioni di chi opera dentro l’economia del noi non sono facilmente riconducibili a uno schema, una linea, un’ideologia. È un altro modo di far politica? Biograficamente, è stato così sul finire del secolo scorso, negli anni ’90, quando in esperienze di “ben fare” si è tuffata parte di una generazione disillusa dalla caduta dei grandi progetti novecenteschi. Ma nel frattempo è successo di tutto, nel mondo e in Italia. La globalizzazione e il movimento no global, il terrorismo e le guerre, la rivoluzione della rete e quella del mercato del lavoro, la crisi della rappresentanza… La dimensione politica dell’economia del noi non è univoca, né è sempre presente. Per molte delle persone che abbiamo incontrato in questo viaggio, è il solo modo di far politica, partendo dalle condizioni della propria vita; per altri, è uno dei modi per occuparsi dell’interesse pubblico prioritario, individuato nella tutela e la gestione dei beni comuni e in particolare del bene comune della conoscenza; per altri ancora, è uno strumento per scardinare un sistema economico che non funziona sin dalla radice, mentre per alcuni è la sola via per salvare lo stesso sistema economico; per i credenti dell’economia di comunione, è un sistema totale di vita e opere; per gli hactivist del free software, è una rivoluzione dei diritti proprietari e dei rapporti di produzione; ma per i partecipanti a un gruppo d’acquisto di frutta o di impianti solari, può anche essere solo una modalità un po’ più sobria – e allo stesso tempo etica – di consumo. È un’istanza morale? Anche, ma non è intesa nel senso della beneficenza, della filantropia. È un fenomeno di nicchia? Non proprio, soprattutto se si guarda allo sviluppo e all’efficacia di forme organizzative basate sulla collaborazione e la condivisione nel settore dei consumi, dell’ambiente e in quello dell’economia della conoscenza. È, nel campo del lavoro, l’ennesima conseguenza della frammentazione sociale seguita a flessibilità e precarietà? Forse sì, ma vissuta cercando nuove forme di relazioni all’interno delle quali agire da soggetti e non da vittime. “Ho scoperto che era più facile aiutare gli altri che me stesso”, non è una frase sentita in una parrocchia, ma all’interno di un gruppo di ex manager che si sono dati, dopo il licenziamento, una particolare forma di mutuo aiuto.

Il racconto di queste esperienze potrà forse aiutare, con le parole dei protagonisti, a rispondere a qualche domanda. Le ho scelte in modo inevitabilmente parziale, seguendo le tracce del “noi” nelle soluzioni quotidiane a problemi economici, cercando di capire i nessi con l’economia e la politica tradizionali, privilegiando quelle con più spiccati aspetti di innovazione sociale, e cercando di narrarne il più possibile l’interazione con il luogo e il tempo in cui si trovano a operare. Per questo più che un saggio è un viaggio in una parte della società italiana trascurata dalla rappresentazione prevalente dei media. La parte di chi cerca di costruire con le relazioni, laddove la crisi economica e quella politica sembrano aver spinto molti a resistere chiudendosi: in casa, in un gruppo identitario, nel proprio interesse. In questo senso, è un viaggio in controtendenza, i cui appunti riportano risorse sociali nascoste e zone di solidarietà, partecipazione, innovazione non adeguatamente valorizzate”. 



Generazione 40 anni. Si scrive flessibile ma si legge precario.
di Tonia Mastrobuoni, La Stampa  
Posted 18 aprile 2011


C'è chi li chiama bamboccioni, chi, citando una commedia francese di qualche anno fa su una famiglia che non riesce a cacciare il figlio trentenne inchiodato a casa, Tanguy. La verità è che se in Italia milioni di giovani hanno un problema a costruirsi un'esistenza fuori dalla famiglia, i motivi sono solo in parte antropologici. E più che a indolenti ragazzoni che preferiscono farsi lavare i calzoni dalle madri a quarant'anni, in mancanza di politiche pubbliche che li tutelino, i giovani somigliano sempre di più a funamboli senza rete. E la recessione ha avuto solamente l'effetto di rendere evidenti i difetti del sistema che stanno condannando ormai quasi due generazioni a stare peggio delle precedenti. Cresciuta nella consapevolezza di dover dimenticare il mito del posto fisso che aveva segnato la vita dei propri genitori, dagli anni 90 la generazione dei flessibili ha imparato invece che il destino più comune è invece quello di precario. Non è una distinzione politica: lo affermano apertamente economisti e giuslavoristi autorevoli come Boeri, Trivellato o Ichino. La differenza? Chi è flessibile passa idealmente da un lavoro all'altro migliorando le proprie competenze e il proprio stipendio. Fino a12008, l'anno della crisi, in Italia è cresciuto invece un esercito di lavoratori lontano da questa realtà. Uomini e donne spesso inchiodati allo stesso lavoro, senza tutele e sempre con lo stesso stipendio, con contratti a tempo reiterati per anni e anni. Così, la differenza tra flessibile e precario è diventata in sostanza una differenza di prospettiva. Erano 2,8 milioni secondo la Banca d'Italia o l'Istat, quasi 5 secondo altri studiosi. Ma la crisi ha segnato uno spartiacque: l'ultimo Bollettino di Bankitalia afferma che per le nuove assunzioni si registra dalla fine del 2010 un crollo di quelle a tempo indeterminato mentre aumentano esponenzialmente quelle a tempo parziale e part time. Questo esercito crescente - ecco un altro, enorme problema - secondo l'Istat è anche condannato a stipendi da fame: in media 1.026 euro al mese (rapporto 2009). E noto che milioni di imprese rimaste con l'arrivo del-l'euro senza la possibilità della vecchia svalutazione competitiva non hanno investito in azienda per fare il salto tecnologico e sentirsi minacciate un po' meno dai famosi prodotti cinesi. Hanno preferito invece mantenere basso il costo del lavoro schiacciando i salari. Il risultato è denunciato anche dalla Banca d'Italia, che parla spesso dei redditi dei dipendenti (tutti, non solo quelli dei giovani ovviamente) che hanno registrato addirittura un calo da quindici anni a questa parte, in termini reali. A questo si aggiunga che anche il costo della vita costringe ad allungare la permanenza nella famiglia di provenienza. Un esempio banale? A causa della bolla immobiliare degli anni Duemila, è diventato proibitivo con un ragazzo con uno stipendio di mille euro mettere il naso fuori casa, cioè prendere un appartamento in affitto o men che meno, comprarsi una casa. Un ulteriore aspetto, non meno importante perché è emerso soprattutto durante la crisi, è la mancanza di un paracadute nei periodi difficili. Il nostro è ancora un sistema tarato sugli anni -Settanta, quando in Italia c'era la grande industria e una prevalenza assoluta di contratti a tempo indeterminato: per i momenti difficili, era prevista la cassa integrazione. I precari non possono invece contare su alcun tipo di tutela. Ecco perché molti studiosi insistono da anni che la riforma prioritaria è quella degli ammortizzatori sociali per garantire un sussidio di disoccupazione a tutti. Non solo ai padri, ma anche ai figli.


Piccole e grandi responsabilità        
Posted domenica, 09 maggio 2010                                                                                       


Il 26 aprile a Milano si è tenuto il Sodalitas Day, evento celebrativo del quindicesimo anniversario della Fondazione Sodalitas, presieduta da Diana Bracco. In occasione sono stati presentati gli esiti della ricerca condotta da Gfk Eurisko attraverso interviste condotte su 44 dei 75 top manager alla guida di aziende associate, sulle loro strategie green responsible, che perseguono e che giudicano efficaci.

All'appello rispondono in molti.

Tra di loro sono St Microelectronics che taglia le emissioni di anidride carbonica fino a sette tonnellate al giorno, i consumi di acqua e di elettricità e sostiene progetti per il riciclaggio dei rifiuti. Poste italiane, che utilizza energia prodotta da fonti rinnovabili e utilizza una flotta aziendale a metano e Vodafone che recupera i cellulari e le loro batterie esauste. Ne troviamo poi tanti altri, quali Falk, Eni, Terna, Unicredit, la Fondazione del Credito Valtellinese, la Fondazione Accenture con Idea TRE60, Enel, Italcementi, IBM, Gam Edit, Palm, Unilever, Pirelli, Kpmg, Linklaters, Novartis, Autogrill, Henkel, Siemens e Prysmian........etc.

Dalla ricerca emergono chiari i vantaggi:
attrazione di persone più qualificate e di clienti migliori,
retur on investement maggiore,
miglioramento del rapporto con clienti e dipendenti,
attrazione di maggior risorse economiche,
maggiori opportunità di crescita,
rafforzamento cultura della responsabilità con enfasi sui valori,
costruzione di un clima professionale positivo e incremento della motivazione dei clienti,
incremento della credibilità ambientale,
incremento del livello di fedeltà,
e risparmio energetico.

Che possono essere raggiunti soltanto avendo la meglio su alcuni ostacoli:
il costo iniziale,
il cambio di cultura,
la scarsa comprensione dei vantaggi,
e la bassa percezione del ritorno,
ma anche la paura del cambiamento e il timore nel seguire una strategia di trasparenza,
la mancanza di conoscenza,
la paura del cambiamento e di impegni eccessivi,
la mancanza di conoscenza e di incentivi.

Oltra alla ricerca di Sodalitas rivolta al top management aziendale Greenbean , Fabris Retail Summit e Monitor 3SC  si sono dedicati a leggere gli stili di consumo degli italiani in funzione del fattore green. In particolare secondo i primi gli impegnati veri e propri sono il 10-12%, seguiti da un 20 - 23% di sostenitori, un 55 - 60% di spettatori e un 10-15% di indifferenti.

A fianco alle grandi responsabilità di capitani d'azienda ci sono le responsabilità  piccole, di chi decide di intraprendere con un'idea ben chiara di responsabilità rivolta ai consumatori. E'il caso di Zucchero di Canna , frutto della fucina di The Hub a Milano, e Giusti Eventi  a Torino. Tutte e due le realtà nascono con l'obiettivo di organizzare eventi sociali, sostenibili e solidali.  



In azienda decide l'etica?
Posted martedì, 13 aprile 2010

L'Istud  - Istituto Superiore Studi Direzionali ha effettuato quattro sondaggi tra i partecipanti ai suoi programmi Executive (edizione 2007, 2008, 2009 e all'interno di una programma di formazione per un'azienda multinazionale). Ai 170 partecipanti è stato proposto un questionario anonimo, con un set di dieci dilemmi decisionali, ciascuno contentente un'alternativa tra due possibilità che si escludono a vicenda. I risultati della scelta possono essere ascritti per la loro natura e per il focus di decisione, a tre categorie: scelta deontologica, consequenziale e deresponsabile. Nella prima prevale l'attenzione al sè e ai propri valori, nella seconda all'organizzazione e ai suoi risultati di lungo periodo anche in termini di reputazione e la terza sull'azione in sè e i suoi risultati di breve periodo con una sottrazione alla valutazione etica.
I sondaggi rivelano che il 34,2% delle decisioni sono deontologiche, il 35,2% consequenziali e il 30,5% deresponsabili.In ogni caso traducono una precisa concezione d'impresa, una vocazione del decisore e conseguentemente un profilo manageriale specifico.
Una visione con una dominante share - holders si attesta tra chi decide in modo deresponsabile, più che stake - holders oriented che invece si riscontra tra chi decide in modo deontologico e consequenziale. Mentre un netto orientamento verso l'impresa no profit traduce la vocazione soltanto di chi conduce decisioni dettate dalla propria deontologia professionale.
Ne conseguno quindi tre idealtipi manageriali:
  1. il Manager Missionario: scelta deontologica, focus su sè e i valori, stake holders view, vocazione al non profit
  2. il Manager Integrato: scelta consequenziale, focus su azienda e sui risultati di lungo periodo, visione bilanciata tra share e stake - holders, vocazione profit
  3. il Manager Mercenario: scelta che prescinde dalla dimensione etica, focus sull'azione e vocazione profit
Resta da verificare in quale misura a tali profili possano corrispondere caratteri di affidabilità, fedeltà, spirito critico e accountability.

In Italia però il binomio responsabilità e competitività sembra ancora non 'viaggiare in coppia'. Da quanto emerge dall'indice della competitività responsabile l'Italia si trova al 26° posto della classifica generale (31 Paesi) proprio perchè le aziende interessate alla Csr lo sono perchè è uno strumento reputazionale, ma non leva di competizione. Tra le aziende intervistate (Acea, Coca Cola, Coop, Ferrovie dello Stato, Fiat, Gancia, Gruppo Hera, Italgas, Intesa San Paolo, Juventus, Roche, Upim) i decision maker sembrano puntare di più su qualità, innovazione e vicinanza alle esigenze dei clienti e molto meno sulle persone, l'ambiente, la governance, la reputazione e le comunità.
I fattori di successo dell'impresa restano quindi legati al mercato e la Csr è vista quindi come un fattore di successo marginale. Mentre nel resto del mondo, le aziende le riconscono la capacità di generare benefici tangibili come la conquista e il mantenimento dei clienti, l'aumento del valore per gli azionisti e l'incremento della profittabilità.
In ogni caso Sergey - Brin , co fondatore di Google lasciando la Cina dà una grande lezione di etica che altri Ceo sembrano condividere (Alfeo Carretti per Atlantic Man Group, Davide Prati per Petrolifera Italo Rumena e Fiore piovesana per Camel Group).
 
 


24 pillole di etica civile
posted marzo 2010

La redazione di IL - Intelligence in Lifestyle, supplemento de Il Sole 24Ore pubblica nel numero 18 di Marzo 2010 nella storia di copertina 24 proposte per tradurre l'etica in pratica, in Italia. Si tratta di contributi raccolti tra editorialisti, giornalisti, pensatori e persone comuni che svolgono lavori diversi con ruoli svariegati. Tra di loro ci sono alcuni volti e nomi noti. Antonio Armano, Salvatore Carrubba, Gianni Dragoni, Giuseppe Frangi, Guido Furbesco, Roberto Galullo, Gigi Garanzini, Paolo Madron, Walter Mariotti, Gerardo Marotta, Paolo Martini, Mariano Maugeri, Alessandro Melazzini, Antonello Montante, Maddalena Oliva e Carlo Piano.
Pubblico le 24 pillole di etica che sono emerse perchè ci raccontano il punto di vista della società civile, dei 'non addetti ai lavori', coloro che senza occuparsi di etica per professione ne avvertono l'esigenza e lo comunicano.
  1. Che lo scandalo faccia scandalo
  2. Studiare il pensiero morale nella scuola obbligatoria
  3. Rispettare le Istituzioni
  4. Favorire il ricambio generazionale, anche in politica
  5. Abolire le auto blu
  6. Più senso civico nella vita quotidiana
  7. Controllare il rapporto tra reddito e stile di vita (controllo fiscale e redditometro)
  8. Aumentare la trasparenza nella finanza
  9. Ripulire la televisione
  10. Sostenere i cronisti coraggiosi, come Saviano
  11. Regolarizzare la prostituzione
  12. Chiedere la fattura, a partire dall'idraulico
  13. Riformare la giustizia
  14. Ripulire lo sport nazionale, il calcio
  15. Combattere le baronie universitarie
  16. Far funzionare l'ufficio del difensore civico 


Lo stato di paura, vince?
posted marzo 2010

E' di qualche giorno fa la notizia che riporta di una 'manifestazione politica' di alcuni candidati alle elezioni regionali italiane: queste persone, di cui è del tutto irrilevante lo schieramento, si sono messe a distribuire salviette disinfettanti, dette 'antimmigrato' all'uscita dei supermercati. Questo episodio ha innescato in me, alcune riflessioni. Come è capitato a tutti, mi ritrovo a togliermi una curiosità su che cosa sia la paura, da dove nasca e che cosa sia la paura dell'estraneo. E se la paura fa novanta, eccomi quà ad avventurarmi in un tema 'delicato' sentendomi come un elefante in un negozio di cristalli.
Il termine fobia (dal greco φόβος, che si legge "phobos", ossia "paura") è un'irrazionale e persistente paura e repulsione di certe situazioni, oggetti, attività o persone. Può limitare l'autonomia del soggetto ed è una manifestazione riguardante stati dell'Io che non è pienamente inserito con l'ambiente che lo circonda. Il sintomo principale è l'irrefrenabile desiderio di evitare l'oggetto che incute timore. Pur essendo legata a un oggetto o una situazione concreta, il contenuto psicologico che è alla base della fobia non coincide con quell'oggetto, che svolge semplicemente il ruolo di motivazione occasionale della crisi fobica.

Le interpretazioni sulle origini della fobia sono varie. Per la psicoanalisi la fobia è imputabile alla rimozione di contenuti inconsci che manifestano il loro effetto portando l'individuo ad evitare una certa situazione. L'evento traumatico subisce un fenomeno di spostamento su una situazione specifica. A livello di pulsioni inconsce, la fobia è causata dalla rimozione di un'idea, di un desiderio o di un impulso inaccettabile, mentre l'interpretazione psicoanalitica freudiana restringe il ventaglio di ipotesi definendo la sindrome fobica come una conseguenza del mancato superamento del complesso di Edipo (isteria di angoscia) e dell'angoscia di castrazione.

Ora, avventuriamoci in una forma specifica di fobia, la xenofobia. Dal greco ξενοφοβία, xenophobia, ossia "paura dell'estraneo" (composto da ξένος, xenos, "insolito, diverso" e φόβος, phobos, "paura") è la paura di ciò che è distinto per natura, razza o specie. Il termine è tipicamente usato per descrivere la paura o l'avversione per ciò che è estraneo. Uno degli oggetti principali verso cui si manifesta questa fobia è sostanzialmente culturale, ovvero alcuni elementi culturali che vengono considerati alieni. Tutte le culture sono soggette a influenze esterne, ma la xenofobia culturale è spesso ben indirizzata.

Umberto Galimberti, in un intervista riflette sul tema dell' empatia, in occasione della pubblicazione in Italia del libro di Jeremy Rifkin, "La civiltà dell'empatia"  ci racconta perchè secondo lui, "l'uomo ha bisogno degli altri. E' utile chiedere più empatia nelle società contemporanee" ci dice, "ma molte, quella italiana inclusa, sono sospettose e sfiduciate. E la fiducia è la precondizione di ogni relazione empatica. Sia a livello individuale: senza empatia non funziona nemmeno il rapporto medico - paziente; sia a livello della società."

Intanto, Jeremy Rifkin ci racconta di un "enigma che ci rende gli unici animali capaci di provare autenticamente un senso di stupore e angoscia che è la simultanea ricerca di intimità e universalità che spinge la nostra mente in entrambe le direzioni, sebbene sembrino in contraddizione. L'essere umano cerca da sempre una 'intimità universale' che è l'essenza stessa di ciò che chiamiamo 'trascendenza'. In alcuni casi la dialettica fra individualizzazione e integrazione e la pulsione verso intimità e universalità diventano troppo tese e la connessione si spezza. In questi momenti in cui la società vacilla smarrendo il senso di intimità e universalità che le paure primordiali dell'umanità si scatenano. Purtroppo la spinta verso l'empatia viene messa a tacere, proprio quando le forze sociali rischiano di disgregarsi."

Se cerco il significato del termine, leggo: Empatia, dal greco "εμπαθεια" (empateia, a sua volta composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"). Veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l'autore-cantore al suo pubblico e nelle scienze umane designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da uno sforzo di comprensione intellettuale dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. Nell'uso comune, è l'attitudine a offrire la propria attenzione per un'altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull'ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altro. Studi recenti confermano che l'empatia non nasce da uno sforzo intellettuale, è bensì parte del corredo genetico della specie umana.

Prosegue Galimberti: ".... la recente riflessione di Scalfari su Freud la leggo come invito agli uomini di oggi a pensare alla nostra società, non soltanto in termini di lotta, egoismo, narcisismo; ma rivalutando l'innato bisogno dell'uomo dell'altro, a differenza dell'animale" in quanto, il Freud della maturità si sposta verso il dualismo Eros - Thanatos, la dimensione aggregante contro la dimensione distruttiva.
L'empatia quindi, ci può guidare nel costruire una visione del mondo più ampia. Visione che è tradotta dalla weltanschauung che abbiamo di esso. Si pronuncia /ˈvɛlt.anˌʃaʊ.ʊŋ/ e descrive un concetto fondamentale nella filosofia ed epistemologia tedesca, peraltro non traducibile in lingua italiana. Essa esprime un concetto di astrazione pura che possiamo tradurre con "visione del mondo", "immagine del mondo" o "concezione del mondo" e può essere riferito ad una persona, ad un gruppo umano o ad un popolo, come a un indirizzo culturale o filosofico e a un'istituzione ideologica in generale e religiosa in particolare.

Chiudo questo viaggio un pò complicato, con un interrogativo e un invito. Quale è la weltanschauung che appartiene oggi alla nostra società? Proviamo a chiedercelo e a continuare a chiedere una risposta che sia capace di empatia. Questo è il mio amuleto e il mio monito di fronte alla salvietta disinfettante distribuita alle persone all'uscita di alcuni supermercati, nel presunto interesse generale.

Proprio perche "la politica della biosfera si fonda sull'idea che la terra sia un un organismo vivente, fatto di relazioni interdipedenti e che ciasscuno di noi può sopravvivere soltanto mettendosi al servizio della più vasta comunità di cui fa parte.